Prigionieri del lavoro

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Beeld door: Illustratie: Studio Wim/ Steffie Padmos

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Prigionieri del lavoro

Beeld door: Illustratie: Studio Wim/ Steffie Padmos

Interi settori dell’economia olandese si basano sullo sfruttamento degli immigrati, che non possono denunciare le loro condizioni di lavoro. E le autorità fanno finta di non vedere.

Dalla cucina di un ristorante cinese di Utrecht, a quaranta chilometri da Amsterdam, arriva un grido. I clienti imbarazzati prendono le giacche e se ne vanno senza mangiare. Poi la porta della cucina si apre e un cuoco con il collo pieno di graffi scappa facendosi strada fra i tavoli e le sedie vuote.

Il capo lo insegue e cerca di trattenerlo, ma non ci riesce: Wu si divincola e cade in mezzo alla strada. Il titolare di un bar di fronte chiama la polizia. Poco dopo agenti e paramedici si chinano sul cuoco cinese. Dietro di loro il datore di lavoro ringhia in mandarino: “È meglio che te ne vai da questo paese.”

Tre anni dopo incontriamo Wu nella fredda sala colloqui dei servizi sociali: è ancora nei Paesi Bassi. Non si toglie la giacca e continua a sfregarsi nervosamente le mani callose e ustionate. Ci spiega perché quell’uomo gli aveva affondato le unghie nel collo: “Voleva che riempissi il piatto di un cliente con gli avanzi di un altro cliente. Gli ho detto che non potevo”.

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All’epoca dei fatti per Wu i Paesi Bassi non si estendevano molto al di là del ristorante. Wu lavorava undici ore al giorno, sei giorni alla settimana, e dormiva in uno stanzino sopra la cucina insieme a un collega. Secondo il contratto che aveva firmato in Cina avrebbe dovuto ricevere 1.500 euro al mese. In realtà ne prendeva solo ottocento, da cui il capo sottraeva una percentuale per l’assicurazione obbligatoria. Con i soldi rimasti Wu doveva mantenere i genitori, la moglie, il figlio e il suocero, oltre a saldare un debito di novemila euro per i biglietti aerei e le spese d’intermediazione.

Dopo la lite con il capo, Wu ha sporto denuncia per sfruttamento del lavoro. Il pubblico ministero ci ha messo sette mesi a prenderla in esame. Secondo l’avvocato di Wu non c’era niente da fare: un altro cuoco del ristorante, che come lui dipendeva in tutto e per tutto dal datore di lavoro, aveva smentito la sua versione. Inoltre le carte del locale erano perfettamente in regola. Wu aveva solo la sua parola, e non sarebbe bastata a vincere una causa.

Ma Wu era davvero vittima di sfruttamento. Il capo gli faceva pressioni perché lavorasse oltre il dovuto, e lui non poteva opporsi data la sua posizione: per rimanere nei Paesi Bassi aveva bisogno di un lavoro. Il titolare del ristorante lo sapeva e ne approfittava. Ma Wu era stato sfortunato, perché quel giorno non c’erano testimoni.

Non è un caso eccezionale. Secondo le stime ufficiali del 2017, ogni anno nei Paesi Bassi ci sono circa duemila casi di sfruttamento (senza considerare i lavoratori sessuali): un numero inverosimilmente basso, se si pensa che nel paese vivono e lavorano almeno 35mila stranieri senza documenti, oltre a migliaia di immigrati regolari che spesso dipendono dalla benevolenza e dalla correttezza dei loro datori di lavoro.

Il cliché vuole che la schiavitù moderna sia limitata a paesi lontani. La verità è che non c’è bisogno di andare molto lontano per trovarla: oggi nei Paesi Bassi migliaia di persone sono sfruttate. Si tratta soprattutto di immigrati sottopagati, che lavorano in condizioni misere e non hanno modo di emanciparsi. Se si escludono le organizzazioni criminali e l’industria del sesso, parliamo principalmente di impiegati nelle serre, cuochi, lavapiatti, operai edili, badanti e ragazze alla pari.

La piattaforma olandese di giornalismo d’inchiesta Investico ha indagato per sei mesi sullo sfruttamento del lavoro nei Paesi Bassi. Abbiamo parlato con attivisti ed esperti e seguito diversi casi di vittime di sfruttamento che cercavano giustizia. Ottenerla è raro: solo una denuncia su cinquanta porta a una condanna. Il confine tra sfruttamento e cattiva condotta dei datori di lavoro è spesso troppo vago perché le autorità possano intervenire. Dall’inchiesta di Investico risulta che c’è ancora molta strada da fare nella lotta al traffico di esseri umani e nella tutela dei diritti dei migranti. Anzi, il governo contribuisce allo sfruttamento favorendo l’arrivo di persone vulnerabili e lasciandole in balia dei datori di lavoro. Chi sfrutta ha molto da guadagnare e le possibili conseguenze non sono gravi: è un rischio che vale la pena correre.

Furgoncini bianchi

Vicino alla stazione di servizio dello Schilderswijk, un vecchio quartiere popolare dell’Aja, il fornaio alza la saracinesca alle cinque e mezza del mattino. Il profumo di pane appena sfornato raggiunge decine di bulgari che aspettano sotto la pioggia. Fanno colazione con i börek, rotoli di pasta sfoglia ripieni di formaggio. Dei furgoncini bianchi e grigi vengono a prenderli. Qualcuno ha il nome di un’agenzia interinale scritto sulla fiancata, la maggior parte no. È lunedì mattina e contiamo almeno cento furgoncini che portano gli uomini al lavoro. Si occupano di “fiori” e di “orti”, dicono in inglese o in un olandese stentato. Un polacco si allontana quando cerchiamo di parlargli. All’angolo davanti alla stazione di servizio c’è un bulgaro. “Aspetto un lavoro”, ci dice. Conta le monetine per offrirci un caffè da cinquanta centesimi. Sua moglie, che fa le pulizie, è già salita su un furgone. Lui è un imbianchino. Qui il lavoro è incerto e informale, ci racconta. Non si sa mai con certezza se si troverà qualcosa da fare, e nemmeno se si verrà pagati. “Lavori tutta la settimana e poi niente soldi”, ci dice. Un’ora dopo è ancora in attesa.

Da decenni il settore ortofrutticolo olandese fa affidamento sugli immigrati. Migliaia di piccole agenzie operano in un settore redditizio che ogni anno attira decine di migliaia di lavoratori dall’Europa centrorientale. Quando uno di loro rimane disoccupato, spesso può trovare un impiego spargendo la voce nei bar e nei negozi dello Schilderswijk, ci spiega il sindacalista Mohamed Dahmani: “Negli anni settanta erano turchi e marocchini, oggi soprattutto polacchi, romeni e bulgari.”

Fino a vent’anni fa le agenzie di lavoro interinale per operare avevano bisogno di una licenza, e visto che costavano troppo molti imprenditori si rivolgevano ai subappaltatori illegali. “In certi casi il lavoro nero somigliava molto a una forma di schiavitù moderna”, dice Dahmani. Oggi ci si può iscrivere alla camera di commercio per cinquanta euro e le agenzie sono circa 3.600. Molte si muovono ai margini della legge per trarre il massimo profitto. “Ogni volta che cambiano le regole, s’inventano qualcosa di nuovo”, spiega Dahmani.

Tariq ha trovato lavoro in una serra per vie traverse. Il cerotto che ha sul mento copre una cicatrice, e dietro la testa ha un’ustione. Si muove come un anziano, ma ha solo ventiquattro anni. In Marocco partecipava a tornei di taekwondo, racconta con un sorriso: “Mi manca molto lo sport”. Ha le palpebre abbassate per via delle cicatrici e non può chiudere completamente gli occhi. Addormentarsi è difficile.

All’inizio del 2015 Tariq ha pagato dei trafficanti per farsi portare nei Paesi Bassi. Ha raggiunto la Spagna a bordo di un gommone e poi ha viaggiato via terra. Dormiva da conoscenti o per strada. “Quando sentivo dei marocchini parlare cercavo subito di avvicinarli”, ricorda. Ogni tanto aiutava il proprietario di un banco al mercato, finché non gli è stata prospettata la possibilità di lavorare per un’azienda a Erica, nel nord dei Paesi Bassi, che coltivava paprika biologica.

Dopo due giorni di prova il capo gli ha fatto un’offerta: un alloggio e un piccolo salario in cambio di qualche lavoretto. Del lavoro pesante, quello di raccolta, si sarebbero occupati i polacchi, mentre lui sarebbe stato un specie di tuttofare. Era una prospettiva allettante: si trattava di un’azienda biologica rispettabile. Tariq ha tirato un sospiro di sollievo ed è salito sull’auto del capo, che durante il viaggio gli ha parlato in tono molto serio: “Mi ha detto di non uscire da solo, di restare a casa il più possibile e di non parlare con nessuno se non era necessario”. Il capo di Tariq non ha voluto commentare il contenuto di questo articolo.

Per eliminare muffe e batteri dal terreno, spesso le aziende agricole usano il vapore. Tariq faceva questa operazione ogni sabato. Dei tubi sotto terra sparavano verso l’alto vapore a una temperatura superiore ai centoventi gradi. Il vapore era poi trattenuto da un telo di plastica teso, e a volte non si distribuiva bene. In quel caso Tariq doveva pestare il telo. Non ha mai ricevuto istruzioni precise: “Non sapevo che fosse pericoloso”, ricorda. Alla fine della stagione il telo era consumato e la plastica presentava delle piccole lacerazioni. Dai tubi, inoltre, usciva troppo vapore. Probabilmente un esperto si sarebbe accorto che qualcosa non andava. Ma gli esperti costano. Tariq non sapeva cosa lo aspettava quando ha cercato di schiacciare una grossa bolla d’aria.

Come si finisce vittime degli sfruttatori? Masja van Meeteren è una criminologa che si occupa di sfruttamento. Il rapporto tra vittima e sfruttatore non è sempre univoco, ci spiega. Certamente non lo è quando lo sfruttatore è un uomo e la vittima una donna: “Ci sono casi in cui la vittima non capisce di essere sfruttata”. Le tecniche impiegate dallo sfruttatore sono simili a quelle di un corteggiatore. “Lo sfruttatore cerca di conquistare la fiducia della vittima, ponendosi sullo stesso piano di un genitore o di una figura simile”. Spinta dal senso del dovere o da un sentimento di amicizia, la vittima lavora ore e ore per una paga insufficiente, talvolta rischiando la salute.

La vittima potrebbe sempre dire basta, ma non è così semplice. Anche quando non c’è un rapporto di fiducia, è difficile che i lavoratori sfruttati se ne vadano. “Le vittime non sono quasi mai fisicamente prigioniere. Piuttosto non vedono un modo realistico di lasciare il lavoro”, spiega Van Meeteren. Tariq è vulnerabile perché è clandestino, Wu dipende dai suoi sfruttatori per via dei debiti.

Due norme aiutano gli sfruttatori. Nel 2017 più di mille ragazze sono arrivate nei Paesi Bassi grazie al “regolamento sui ragazzi alla pari”, un “programma di scambio culturale” che esiste dal 2013 per “promuovere la conoscenza del paese”. Si tratta per lo più di donne tra i diciotto e i trentun anni che hanno raggiunto legalmente i Paesi Bassi per “entrare in contatto con la cultura e la lingua olandese”. Molte di loro vengono dalle Filippine. Per un massimo di 340 euro al mese più vitto e alloggio, le famiglie olandesi possono avere una persona che badi ai bambini e tenga in ordine la casa. Secondo il regolamento ai ragazzi alla pari spettano solo lavori leggeri.

Proposte assurde

Alla festa di Natale tenuta all’Aja dall’organizzazione di migranti filippini Filmis è tutto un luccicare di lustrini e stroboscopi. I bambini sfrecciano in pista su scarpe con rotelle luminose. Un gruppo di uomini olandesi di mezza età sta a guardare. Molte ragazze alla pari vengono nei Paesi Bassi per mantenere la propria famiglia, dice Bing Molabin della Filmis. “A volte chi le ospita abusa del loro aiuto, facendole lavorare più di quanto pattuito”.

Da tempo c’è chi dubita dell’efficacia del programma. Secondo un rapporto del 2014, il confine tra scambio culturale e lavoro sottopagato è molto sottile. Il 30 per cento dei ragazzi alla pari lavora tanto da non rientrare più in questa categoria. Il governo ha quindi proposto di includere nel programma almeno una lezione di lingua e di abbassare il tetto massimo di ore di lavoro da trenta a venti alla settimana. Ma il partito liberale Vvd ha definito “assurda” la proposta, che si è subito arenata in parlamento.

Il controllo sulle condizioni di lavoro è minimo. Gli ispettori devono assicurarsi che i ragazzi non lavorino troppo, ma possono effettuare controlli solo se ci sono indizi concreti. Ogni anno più di mille giovani straniere usufruiscono del programma. Nessuno verifica se, trascorsi i dodici mesi, lascino i Paesi Bassi o rimangano illegalmente. “Si parte dal presupposto che queste persone se ne vadano da sole”, dicono all’Ente olandese per l’immigrazione e la naturalizzazione. Secondo Molabin una buona parte delle filippine è rimasta nei Paesi Bassi alla fine del programma. Continuano a lavorare o cercano di ottenere un permesso di soggiorno in altri modi. “Il più semplice è trovarsi un marito”, aggiunge indicando gli uomini olandesi presenti alla festa.

La seconda norma che agevola lo sfruttamento del lavoro è la convenzione sui ristoranti asiatici, nota anche come “accordo del wok”, introdotta nel 2014 e prorogata nel 2016. Wu è arrivato nei Paesi Bassi come lavoratore qualificato proprio grazie a questo accordo. È un cuoco diplomato, e i ristoranti asiatici soffrono di una carenza cronica di personale. Gli olandesi non sono disposti a lavorare in queste cucine a causa delle “peggiori condizioni di lavoro (percepite)”, come ha scritto il governo nella nota d’accompagnamento alla convenzione. I titolari di ristoranti asiatici preferiscono non assumere cuochi olandesi perché, sempre citando il governo, avrebbero “una scarsa etica professionale”.

La convenzione ha riscosso molto successo: tra l’ottobre del 2014 e il gennaio del 2018 sono arrivati nei Paesi Bassi più di quattromila cuochi asiatici. Lo stato, in questi casi, riveste l’insolito ruolo di facilitatore dello sfruttamento. Non informa i cuochi e i ragazzi alla pari sui loro diritti e su come farli valere, né esercita un controllo vero e proprio. Succede così che, dopo il loro arrivo, i cuochi e i ragazzi dipendono completamente dai datori di lavoro.

“Bisogna guardarsi intorno e chiedersi cosa sta succedendo. È importante prendere coscienza della situazione”, dice Corinne Dettmeijer, che per undici anni è stata relatrice nazionale sul traffico di esseri umani e sulla violenza sessuale contro i bambini. Secondo Dettmeijer le istituzioni che dovrebbero contrastare lo sfruttamento sono a corto di personale e di conoscenze. Una volta i lavori di ristrutturazione di una casa nella strada in cui vive l’hanno insospettita, racconta. Gli operai stranieri arrivavano all’alba e se ne andavano molto tardi. Dettmeijer ha deciso di contattare la polizia. “Un agente al telefono mi ha detto che era normale, gli stranieri fanno così. Ho provato a spiegargli di nuovo il problema aggiungendo che mi occupavo del traffico di esseri umani. L’agente non ha fatto una piega, perciò sono andata al cantiere di persona. Alla fine è risultato tutto in ordine, ma era doveroso controllare”.

Spirito di carità

L’ultima volta che Tariq ha lavorato con il vapore è stata nel dicembre del 2015. “Avevamo un’intera stagione alle spalle. Probabilmente il telo era danneggiato”, ricorda. Tariq ha pestato la bolla d’aria e il telo si è squarciato. Lui è caduto sui brandelli di plastica e il vapore gli ha ustionato la pelle. Ha gridato ed è riuscito a mettersi in salvo strisciando sulle mani e sui piedi. “Mi sentivo la faccia sporca e ho cercato di pulirmi. Poi ho visto che la pelle del viso mi era rimasta attaccata alle mani”. Dopodiché ricorda solo che era sdraiato sotto un getto d’acqua e che aveva molta sete. I suoi colleghi hanno avvertito il capo, che gli ha detto di non chiamare l’ambulanza. Nel frattempo Tariq era entrato in coma.

In preda al panico, i colleghi lo hanno caricato in macchina e portato in ospedale, lasciandolo lì sotto falso nome. “Continuo a non capire come abbiano potuto decidere di non chiamare un’ambulanza”, dice Tariq. Il datore di lavoro sostiene di aver pensato che “forse in macchina avrebbero fatto prima”. Se non ci fosse stato l’incidente, è probabile che lo sfruttamento di Tariq non sarebbe mai stato scoperto: lui non si sarebbe mai rivolto alle autorità. Il capo è passato da lui in ospedale e gli ha chiesto di non raccontare nulla, altrimenti l’azienda avrebbe avuto problemi. Tariq ha trovato il coraggio di parlare solo alla terza visita degli ispettori.

L’articolo sul traffico di esseri umani (sotto il quale ricade lo sfruttamento del lavoro) è il più lungo del codice penale olandese, e diversi tribunali assegnano casi come questo solo a giudici specializzati. Non tutti i tribunali ne hanno uno. Non ce l’ha nemmeno il tribunale di Almelo, dove Tariq e il suo ex datore di lavoro continuano a vedersi a quasi due anni dall’incidente. Su richiesta dell’avvocato della controparte, Tariq è stato interrogato più volte. La difesa punta a dimostrare che la versione di Tariq è incoerente e che lui vuole solo ottenere un permesso di soggiorno. Del resto è stato lui a decidere di emigrare nei Paesi Bassi. L’imputato, il cinquantunenne Aad van D., si dichiara innocente. Sostiene che Tariq non era un vero e proprio dipendente: “Gli ho offerto un alloggio per spirito di carità. Lui lavorava sempre di sua iniziativa”.

Il 16 ottobre 2017 i giudici sono entrati in un’aula del tribunale di Almelo. “È un caso complesso”, ha esordito uno dei giudici: bisognava distinguere la questione dello sfruttamento dall’incidente. Il giudice considerava il lavoro di Tariq per l’azienda una specie di “favore”. Con esiti socialmente indesiderabili e tragici, questo sì, ma con quale rilevanza penale? Mentre i suoi occhi vagavano per l’aula semideserta, il giudice ha detto che non gli era chiaro perché Tariq non se ne fosse andato. “Non ci sono le basi per parlare di traffico di persone”, ha dichiarato. “Sembra che l’imputato fosse mosso da buone intenzioni”.

Tra il 2011 e il 2017 ci sono state solo venticinque condanne per sfruttamento del lavoro e traffico di persone, anche se nello stesso periodo le denunce sono state 1.300. E si stima che le denunce rappresentino solo una piccola parte delle situazioni di sfruttamento. Stando ai dati più recenti, quelli del 2015, nel 30 per cento dei casi di traffico di persone il pubblico ministero lascia cadere le accuse prima ancora di arrivare in tribunale.

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Ma se si sa dove guardare, dicono gli esperti, si vede sfruttamento ovunque. “Da quando lavoro in questo settore guardo la città con occhi diversi”, spiega Petra Bakker del centro di coordinamento sul traffico di esseri umani di Amsterdam. “Ora vedo cose che mi fanno pensare. Si cominciano a guardare in modo diverso i cantieri, i centri massaggi, le ragazze alla pari davanti alle scuole”. È un’esperienza comune a molte persone che si occupano di sfruttamento del lavoro. “Ora vado al mercato con un altro spirito, perché so che lo sfruttamento è sempre dietro l’angolo”, dice l’agente Monique Mos. “Dopo qualche anno di lavoro in questo campo non si va più al ristorante a cuor leggero”.

Un collaboratore del pubblico ministero s’insospettisce quando guida in campagna. “Passando vicino alle aziende agricole mi capita di vedere schiere di roulotte e piccoli capanni, e mi dico che qualcuno dovrebbe controllare”. Un collega aggiunge: “Mi capita la stessa cosa quando attraverso le zone industriali dismesse. Dietro ad alcune saracinesche abbassate c’è gente che lavora per pochi spiccioli. Panetterie indonesiane negli atri delle fabbriche, manifatture di sigarette in vecchi garage, lavanderie che sfruttano i lavoratori”: gli esempi sono tanti. “E i vicini diranno sempre di non aver notato niente di strano”.

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